Nella nostra lingua il termine «ordinario» descrive qualcosa di normale, solito, consueto, comune, regolare... ed è naturalmente il contrario di «straordinario». Quando si parla dell’anno liturgico e dei suoi «tempi», questa definizione sembrerebbe calzare perfettamente: se i tempi «forti» come avvento, natale, quaresima e pasqua, sono straordinari, tutto il tempo che resta fuori è ordinario. E quindi ecco 34 settimane (più o meno) in cui non succede nulla, senza feste o celebrazioni particolari. Questo senso di vuoto porta a volte le comunità a riempire le domeniche del tempo ordinario con tante iniziative diverse. Accade perché non ci si è resi conto appieno del significato di questo tempo liturgico.
Tornando un passo indietro, alla definizione di ordinario e straordinario, facciamo un paragone. La nostra vita è fatta di momenti belli e brutti, gioiosi e tristi, luminosi e tenebrosi. Ma anche di giorni festivi e feriali. I giorni festivi sono quelli segnati in rosso sul calendario, ma anche quelli che noi stessi aggiungiamo, per motivazioni diverse, e che ci spingono a celebrare occasioni straordinarie della nostra vita. Per chiarire: il nostro compleanno è un giorno di festa per noi, per la nostra famiglia, per i nostri amici, e magari per la nostra comunità. Lo stesso vale per il giorno del matrimonio, oppure per il 50mo anniversario, e per altre mille motivazioni. Queste sono tutte occasioni belle, ma la straordinarietà si addice anche alle occasioni tristi: la morte di una persona amata, ci porta a celebrarla in maniera particolare, magari prendendosi un giorno di ferie dal lavoro. E coinvolge noi, la nostra famiglia, i nostri amici, e la nostra comunità.
Tutti gli altri giorni sono «feriali», perché non succede nulla di particolare, non celebriamo occasioni speciali. Ma questo non significa che siano giorni tristi, oppure inutili. Non sono per forza tristi perché, come visto, le occasioni tristi quando accadono, rendono una giornata memorabile. Se in una giornata che doveva essere normale, feriale, ordinaria, accade qualcosa di triste, questo trasforma quella giornata: ce la ricorderemo, perché è accaduto qualcosa che normalmente non doveva accadere, e che rende quel giorno straordinario. E poi, un giorno feriale non può essere inutile, perché significherebbe che la stragrande maggioranza della nostra vita è inutile. I giorni feriali ci servono, perché senza di essi non ci sarebbero quelli straordinari. Senza i giorni ordinari, non ci sarebbero quelli straordinari. Se tutti i nostri giorni fossero straordinari, allora nessuno di essi lo sarebbe davvero: la straordinarietà si trasformerebbe in (una nuova) ordinarietà. Per rendere l’idea: se tutti vivessimo tranquillamente fino a 100 anni, non ci sarebbe più motivo di festeggiare chi ci arriva. Non sarebbe più straordinario, ma qualcosa che accade a tutti.
Applicando questa riflessione ai giorni dell’anno liturgico, ci dovrebbe essere evidente che se ogni giorno dell’anno fosse Natale, quale sarebbe la straordinarietà del 25 dicembre? Se in ogni celebrazione cantassimo il Gloria, recitassimo il Credo, e proclamassimo il Te Deum di ringraziamento, queste cose non renderebbero per niente tutte le celebrazioni festive e più solenni, ma sarebbero degradate a elementi ordinari di ogni celebrazione feriale. La celebrazione della Veglia Pasquale, solennissima e che può arrivare a durare anche diverse ore, è importante perché esiste la celebrazione della messa del 12 marzo, giorno normale di una settimana qualsiasi che generalmente dura meno di mezzora. Tutto questo per arrivare a dire che i «tempi forti» esistono perché esiste il «tempo ordinario». Se il tempo ordinario non ci fosse, anche tutto il resto dell’anno liturgico non avrebbe senso.
In più rendiamocene conto: nella nostra vita i giorni davvero importanti, non sono quelli straordinari. Si vivono bene le feste solo se si vive bene tutto il resto dei giorni. Guardandolo da un altro punto di vista, è per questo che chi vive periodi di difficoltà, stanchezza, angoscia e disperazione, sperimenta durante le feste i momenti peggiori di tutto l’anno. Magari sentendosi in colpa, perché sente il «dovere» di essere felice, ma proprio non ci riesce. Così se nella chiesa, in parrocchia, in comunità, non si riesce a vivere bene i giorni feriali, o le domeniche del tempo ordinario, come potremmo vivere bene anche i giorni e le domeniche degli altri tempi?
Per me, la domenica del tempo ordinario è la cartina di tornasole che fa davvero comprendere come vive una comunità cristiana. Non ha importanza se la domenica delle palme si fanno lunghe processioni con tantissime persone che portano palme giganti, acclamando all’unisono al Signore Gesù che entra a Gerusalemme… se poi la domenica di luglio in chiesa ci sono pochissime persone, non si canta, nessuno è disposto a leggere le letture, e tutti non vedono l’ora che finisca la messa per andare al mare, o a pranzo. Come personalmente non conta molto come viviamo le feste ma i giorni normali, così nella chiesa non conta molto come viviamo i giorni forti ma quelli ordinari.
Se dovessimo trovare un’immagine biblica del tempo ordinario, si potrebbe parlare del tempo del discepolato. È il tempo che i discepoli hanno passato con Gesù dal suo battesimo all’Ultima Cena. Il tempo in cui sono stati in sua compagnia, hanno ascoltato i suoi insegnamenti e visto le sue opere. È il tempo in cui hanno imparato ad essere seguaci di Gesù. Il tempo in cui hanno ricevuto il vangelo. Così la chiesa è chiamata durante il tempo ordinario a vivere la quotidianità del suo rapporto con il Cristo, a sedersi ai suoi piedi per ascoltare i suoi insegnamenti, a crescere nella fede, nella speranza e nella carità, per poter essere quel lievito che fa fermentare tutta la pasta.
Buon cammino
(e a presto per la seconda parte)