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L’importanza delle parole: “preghiera”

Teofilo in cammino
Pubblicato da in Parole ·
Tags: parolepreghiera


Secondo la Treccani, la parola preghiera può indicare sia «l’atto di pregare», sia «le parole con cui si prega». È una parola molto antica, e che di generazione in generazione, di popolo in popolo e di lingua in lingua, è stata trasmessa, adattata e a volte storpiata, arrivando fino a noi.

Alla fine del II millennio a.C., una piccola popolazione di origine indoeuropea si installò al centro della penisola italiana, stretta tra altre genti che già da tempo dimoravano in quei territori. Nella loro lingua, una delle numerosissime varianti del proto-indeuropeo, esisteva la radice prach-, che oggi si ritrova anche nel sanscrito, anch’esso di origine indo-europea, parlato in India, e che significa “domandare”, “chiedere”.

Nel giro di qualche secolo, in quella città che sarà Roma, il dialetto proto-indoeuropeo si arricchì di parole di origine diverse e provenienti da lingue osco-umbre o dal greco (sempre di origine indoeuropea ma con una storia completamente diversa) o da quella etrusca (certamente non di origine indoeuropea), e si trasformò lentamente in latino arcaico.

In latino, anche in epoca classica, continuò però ad essere usata la stessa radice indoeuropea, diventata prex (precis). Nel latino popolare, o volgare, più sensibile all’influenza delle lingue parlate dai diversi popoli all’interno dell’Impero romano, si cominciò ad usare il termine precarius, che significa “ottenuto con preghiere”, e la sua variante al femminile precaria, per indicare la preghiera vera e propria.

Dopo la dissoluzione dell’impero, anche il latino si sgretolò, dando vita alle numerose lingue “romanze”, tra cui un posto speciale occupa l’affascinante provenzale, lingua usata dai trovatori, e prima ad avere una corpus letterario. Il provenzale, o lingua occitana, influenzò in maniera rilevante l’origine di tutte le altre lingue europee neolatine. Il termine latino precaria, attraverso il provenzale preguiera, diventò l’italiano preghiera.

Da questa storia di diversi millenni, condensati maldestramente in poche righe, si comprende come la preghiera sia essenzialmente una domanda, una richiesta che vede presenti due attori: chi prega e chi viene pregato. I due non sono sullo stesso livello, perché chi prega lo fa consapevole della sua situazione di precarietà, e, chiedendo all’altro di intervenire in suo favore, non può garantire una successiva restituzione. La preghiera diventa quindi la richiesta del povero al ricco, del debole al forte, del piccolo al grande.

Quando in questa relazione uno degli attori è una divinità, tutto si amplifica ulteriormente, e in maniera esponenziale… all’infinito. L’uomo è precario per definizione, sempre “transitorio”, cioè di passaggio, destinato alla morte dal momento stesso della nascita. Debole e bisognoso di tutto, l’uomo prega per chiedere aiuto a qualche essere superiore. Ma quale?

A differenza delle divinità antiche, creazioni dell’intuizione e dell’immaginazione umana, il nostro Dio si rivela, si fa conoscere. Dio prende l’iniziativa e per primo si rivolge all’uomo, chiedendo di essere ascoltato. Esemplare è la storia di Abramo, che accogliendo la rivelazione di questo Dio misterioso di cui non conosce neanche il nome, si fida della sua promessa e si affida a lui.

Per i cristiani la preghiera è una risposta. Non solo una domanda, ma un dialogo, in cui certamente è possibile chiedere aiuto, ma solo perché si è confidenti nell’amore che Dio già ci ha dimostrato. Una risposta che quindi può farsi lode, ringraziamento ed abbandono nelle sue mani. In altre parole: la preghiera cristiana, per essere autentica, va vissuta nella fede. Ma questa è un’altra storia.

Buon cammino.



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