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Lectio su Matteo 10,37-42: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà» (XIII Domenica del Tempo Ordinario)

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Pubblicato da in Lectio divina ·
Tags: LectioVangeloDomenica
 


34 «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. 35 Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; 36 e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
37 Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; 38 chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. 39 Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
40 Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41 Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42 Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».



Il testo di Matteo della XIII domenica del tempo ordinario (10,37-42), potrebbe sembrare parziale senza i tre versetti subito precedenti (10,34-36) e che lo pongono in perfetta continuità con quello della domenica precedente (10,26-36).
Insieme costituiscono il terzo e ultimo paragrafo del «Discorso Missionario». In questo passaggio Gesù continua ad incalzare i discepoli inviati, ponendo dinanzi a loro le implicazioni del mandato.
- Nei primi versetti (10,34-36) viene presentata la paradossale missione di Gesù e la situazione che essa provoca.
- Nei versetti che seguono (10,37-39) vengono delineate le implicazioni che ne derivano per coloro che la accettano e la perpetuano.
- A conclusione (10,40-42), si esplicita il filo diretto che lega mandante, inviati e Dio.



34 «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada.
Mt 10,34-36 è costruito intorno a élthon (= sono venuto) aoristo di érkhomai (= venire). L’aoristo greco, come tempo verbale, non è ne un tempo perfetto, in cui un’azione si è conclusa, e ne un tempo imperfetto, in cui un’azione è in svolgimento. Infatti caratterizza un’azione in sé e per sé, colta nel momento in cui avviene, senza indicazioni precise di tempo. In italiano viene generalmente tradotto con il passato remoto, ma ricordiamoci sempre che sarebbe sbagliato forzare su indicazioni di tempo.

Così Gesù sembra manifestare una certa coscienza del suo essere Messia. Il suo essere venuto come Cristo viene visto come il portare la «spada», strumento di violenza, di morte e di separazione. Dopo aver sentito «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (5,9) e «Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa» (10,13), questo ci stupisce.

35 Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; 36 e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
Il senso della metafora della spada è illuminato dalla citazione di Michea (7,6) che segue immediatamente. Negli scritti giudaici non era inusuale caratterizzare i tempi del Messia come giorni di violenza, distruzione e dissoluzione dell’ordine sociale. L’arrivo del Messia avrebbe cambiato ogni cosa. L’avvento di Cristo è dirompente: il rapporto con lui pone in discussione tutti gli altri rapporti, compresi i legami affettivi e di sangue.

37 Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; 38 chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Per tre volte viene ripetuta l’espressione «non è degno di me», riferito a chi ama «padre o madre», «figlio o figlia» più di Cristo e a chi «non prende la propria croce» seguendolo. Cristo vuole stare sempre al primo posto, prima di qualsiasi altro legame, anche i più forti e intimi. Il rapporto con lui deve essere relativizza ogni altro vincolo. Le separazioni, anche quelle più dolorose, fanno parte delle scelte che conseguono all’essere discepoli, all’accettare di vivere insieme e come Gesù, seguendolo sulla strada del dono di sé, portando la croce come la porta lui.

39 Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Gesù approfondisce ancora di più il tema del suo essere “portatore di spada”, causa di divisione. Anche se in greco troviamo psyche (= anima), in questo caso non è la parte dell’uomo che sopravvive al corpo, ma la sua esistenza concreta, la sua vita.

Continuando con l’idea che il discepolo deve vivere insieme e come il Maestro, nel dono di sé, chi non sarà disposto a farlo, considerando la propria vita come un bene assoluto, e rifiutando quindi di donarla, non farà altro che sprecarla, perdendola per sempre. Chi rifiuta la croce esclude Cristo dalla propria vita. Invece chi accetta di perdere sé stesso per il bene del prossimo, facendosi simile al Figlio, troverà la salvezza completa e definitiva.

40 Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. 41 Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. 42 Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Nella conclusione di questo terzo paragrafo e di tutto il «Discorso Missionario», il verbo dechomai (= accogliere) è ripetuto 6 volte, diventando quindi l’elemento fondamentale, attorno al quale si struttura il testo. Lo sfondo è costituito dall’istituzione giuridica per cui «l’inviato di un uomo è come l’uomo stesso», nel senso che è “facente funzione”.

Ma Matteo da un senso molto più profondo a questa figura, perché la missione di Gesù è quella dell’inviato di Dio, e quindi egli è l’apostolo (= inviato) per eccellenza. Gli apostoli, sono inviati da Gesù a continuare la sua opera nel mondo, ma non solo in senso spirituale o simbolica, bensì in senso giuridico di “facenti funzioni”, operando quindi «in persona Christi» (= nella persona di Cristo), come se fosse Cristo stesso. Accogliere gli inviati di Gesù è la prova definitiva di voler accogliere Cristo stesso, e quindi il Padre che lo ha mandato. Così ogni gesto di ospitalità e apertura verso gli apostoli diventa una testimonianza d’amore verso Dio, che ne riconoscerà l’importanza nel giudizio finale.



Il Signore viene, viene sempre e continuamente nella nostra vita, e chiede di essere il nostro tesoro, la nostra cosa più preziosa, l’amore più grande del nostro cuore. Come lui ci dona tutto il suo amore, così vorrebbe che noi gli donassimo tutto il nostro amore. Essere discepoli, seguirlo per la strada che lui ha scelto, potrebbe significare lasciarsi alla spalle qualcosa o qualcuno. Essere discepoli, portare la croce come lui, potrebbe significare donare la propria vita, “sprecarla” senza tenere nulla per sé. Essere discepoli, apostoli tuoi, come tu lo sei del Padre, ci invita a continuare a camminare. Ma noi, Signore, non ne siamo capaci. Sostienici, irrobustiscici, nutrici e confortaci. Donaci te stesso, perché noi possiamo donare noi stessi.


Lectio su Matteo 10,26-33: «Non abbiate paura» (XII Domenica del Tempo Ordinario)

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